Compositi autoadesivi: veloci da applicare ma con scarse proprietà adesive

2022-08-26 18:02:01 By : Ms. Candy Wang

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Composito autoadesivo: l’applicazione nella cavità preparata avviene per iniezione in considerazione del suo stato flowable. È necessario che il primo incremento sia applicato attivamente con un microbrush., generando una lieve pressione verso i tessuti dentali d’applicazione

I compositi autoadesivi prevedono un’applicazione diretta sulla superficie dentale senza il passaggio propedeutico delle procedure adesive smalto-dentinali, in virtù del fatto che contengono al loro interno dei monomeri funzionali acidi (self-etch) potenzialmente in grado di demineralizzare la componente minerale dello smalto e della dentina e stabilire un legame micro-meccanico con questi ultimi. Ma qual è la validità di questi materiali da restauro, considerando la loro reale efficacia di adesione verso i tessuti dentali e la longevità delle sigillature e dei restauri? Per verificarlo, Mine e il gruppo di ricerca dell’Università di Leuven hanno condotto un interessante studio in vitro (1) atto a valutare l’interazione tra un composito autoadesivo e il substrato dentale rappresentato dalla dentina e dallo smalto diversamente trattati in superficie.

Il composito autoadesivo testato (che è anche il più conosciuto e diffuso dal punto di vista commerciale) contiene dei monomeri funzionali acidi (esteri metacrilati dell’acido ortofosforico e glicerol-fosfato dimetacrilato, meglio conosciuto come monomero GPDM) con un pH finale pari a 1.9 e quindi un prodotto classificabile (quasi) come “mild self-etch” (pH circa 2.0). L’impiego del prodotto prevede l’applicazione su una superficie/cavità dentale detersa e asciutta di un primo sottile strato di composito, che deve essere applicato attivamente con l’ausilio di un microbrush per 15-20 secondi, generando una lieve pressione sui tessuti dentali sui quali è applicato con il fine di facilitare l’interazione di questi monomeri funzionali con i tessuti stessi. Questo primo strato di composito (intorno a 0,5 mm) deve essere fotopolimerizzato per 20 secondi e successivamente è possibile, eventualmente, procedere con i successivi incrementi dello stesso composito in spessori medi di 2 mm fino al termine del restauro.

L’analisi al microscopio elettronico (Sem) di campioni di dentina trattati superficialmente con frese diamantate a media granulometria evidenzia che l’applicazione del composito autoadesivo in questione non è in grado di dissolvere il fango dentinale superficiale prodotto dagli strumenti rotanti e in particolar modo dove appare molto spesso. Il fango dentinale spesso è semplicemente infiltrato dai monomeri resinosi del composito per formare un fango dentinale ibridizzato con la resina dei monomeri costituenti il composito. La dentina sottostante non subisce demineralizzazione da parte del composito autoadesivo e di conseguenza non tende a stabilire valide interazioni micro-meccaniche con tale tessuto dentale ricoperto dal fango dentinale. Queste condizioni riprodotte in laboratorio simulano quanto avviene clinicamente durante la preparazione cavitaria, in virtù del fatto che l’azione delle frese produce sulla dentina uno strato di fango dentinale abbastanza spesso, anche se non omogeneo.

Nei confronti dello smalto le osservazioni degli autori riguardano sia lo smalto non fresato, vale a dire ricoperto dallo strato aprismatico, sia lo smalto fresato dagli strumenti rotanti. Queste due condizioni riflettono specifiche situazioni cliniche. Ogni qualvolta si opera la sigillatura dei solchi e delle fossette, piuttosto che l’applicazione degli attacchi ortodontici oppure si mettono in pratica le procedure additive “senza preparazione” – molto enfatizzate oggigiorno (ex faccette senza preparazione) – occorre rimuovere chimicamente lo strato di smalto aprismatico superficiale (100 nm) al fine di esporre i prismi sottostanti e renderli disponibili alla mordenzatura acida con H3PO4 al 37% per formare il pattern di micro-irregolarità ritentive. Tali micro-irregolarità possono essere poi infiltrate da un agente resinoso fluido e creare un tenace e stabile legame di natura micro-meccanica allo smalto, descritto da M. Bonocore già nel 1955.

Proprietà adesive scarse? Il composito autoadesivo sperimentato non si è dimostrato in grado di dissolvere e rimuovere lo strato di smalto aprismatico dei campioni non fresati, mentre sullo smalto fresato si è evidenziata una debole interazione tra e internamente ai prismi dello smalto (1 micron), con una grossa variabilità di zona in base alla presenza più o meno consistente del fango inorganico prodotto dalla fresatura dello smalto. Le conclusioni degli autori sono che sicuramente i compositi autoadesivi rappresentano una veloce e facile procedura restaurativa, ma le osservazioni ultrastrutturali di laboratorio evidenziano scarse proprietà adesive di questi materiali verso i tessuti dentali. In particolar modo le scarse capacità adesive dei compositi autoadesivi si evidenziano verso lo smalto integro ricoperto dallo strato aprismatico e verso ogni superficie dentale (sia dentina, sia smalto fresato) ricoperta da fango di preparazione, condizione che, come già visto, si viene sempre a creare clinicamente.

In considerazione di quanto espresso, particolare enfasi deve essere posta nel trattamento di sigillatura dei solchi e delle fossette nei bambini e negli adolescenti essendo tali materiali – riducendo notevolmente i tempi operativi – “appetibili all’impiego” da parte dei clinici. L’assenza di un’interazione micro-meccanica tra il composito autoadesivo e lo smalto non fresato del solco e della fossetta suggerisce, in termini migliorativi di legame, una fase propedeutica consistente nell’applicazione di H3PO4 per 60 secondi e risciacquo, alla quale può seguire il posizionamento del composito autoadesivo che assume, in questo caso, il ruolo di sigillante.

L’applicazione di una resina fluida non solvatata (bonding) sullo smalto mordenzato, prima dell’applicazione del composito che funge da sigillante, permette una efficace penetrazione per capillarità delle micro-irregolarità create, stabilendo una migliore interazione ibrida, e di conseguenza micro-meccanica, tra lo smalto e la resina composita. (Daniele S, Daood U. Dental Biomaterials Science Research. Vol.2 (2) 11-2016. www.dentalbmsr.org).

La conferma di altri studi clinici Kucukyilmaz e il suo gruppo hanno condotto un interessante studio clinico longitudinale split-mouth a 24 mesi (2) per valutare la ritenzione di sigillature dei solchi e fossette condotte con metodiche differenti e nello specifico impiegando un composito flow con una fase propedeutica d’applicazione di un sistema adesivo smalto-dentinale rispetto alla sola applicazione sullo smalto integro di un composito autoadesivo. In entrambe le procedure messe a confronto lo smalto è stato pretrattato con un’applicazione di H3PO4 per alcuni secondi. La ritenzione delle sigillature condotte con composito flow preceduto dall’applicazione di un sistema adesivo hanno evidenziato a 24 mesi una ritenzione pari al 95,7% rispetto al composito autoadesivo, che mostra una ritenzione finale abbastanza bassa e pari al 62,9%, sottolineando la scarsa indicazione di questo materiale per la procedura descritta, nonostante la fase aggiuntiva di mordenzatura dello smalto ricevente. I compositi autoadesivi si dimostrano di conseguenza poco efficaci come approccio clinico per la sigillatura di solchi e fossette.

Sabbagh e altri hanno condotto un trial clinico randomizzato (3) confrontando, su cavità di classe I, la sopravvivenza di restauri condotti con un composito autoadesivo (senza pre-mordenzatura H3PO4 dello smalto) rispetto a una metodica che prevedeva l’applicazione di un sistema adesivo self-etch a cui seguiva l’applicazione di una resina flow tradizionale. Gli autori al follow-up a 24 mesi non riportano sostanziali differenze (criteri USPHS impiegati per la rivalutazione dei campioni) tra le due procedure per quanto riguardo la ritenzione del restauro e un comportamento simile riguardo i parametri di adattamento marginale e discolorazione marginale, dove la valutazione “alpha” tende comunque a diminuire in maniera significativa per entrambi i materiali e procedure impiegate.

1. Mine A, De Munck J, Van Ende A, Poitevin A, Matsumoto M, Yoshida Y, Kuboki T, Van Landuyt KL, Yatani H, Van Meerbeek B. Limited interaction of a self-adhesive flowable composite with dentin/enamel characterized by TEM. Dent Mater. 2017 Feb;33(2):209-217. 2. Kucukyilmaz E, Savas S. Evaluation of different fissure sealant materials and flowable composites used as pit-and-fissure sealants: a 24-month clinical trial. Pediatr Dent. 2015 Sep-Oct;37(5):468-73. 3. Sabbagh J, Dagher S, El Osta N, Souhaid P. Randomized clinical trial of a self-adhering flowable composite for class I restorations: 2-year results. Int J Dent. 2017;2017:5041529.

LE CARATTERISTICHE DEI COMPOSITI AUTOADESIVI_Di recente sono comparse in commercio delle resine composite chiamate autoadesive, caratterizzate dal fatto che non richiedono alcuna fase propedeutica di applicazione delle procedure adesive ai tessuti dentali ma esclusivamente l’apposizione diretta della resina composita stessa e la successiva fotopolimerizzazione secondo le indicazioni del fabbricante. Il razionale alla base dell’introduzione di questo materiale è legato all’evidente riduzione di passaggi operativi e quindi di tempo per il trattamento conservativo.

Proprio in considerazione della riduzione dei tempi operativi, le resine composite autoadesive sono indicate per praticare la sigillatura dei solchi e delle fossette e il riempimento di piccole cavità preparate, soprattutto nei pazienti pediatrici spesso poco inclini a lunghe sedute operative. Altre motivazioni per le quali l’industria ha formulato questi nuovi prodotti sono legate alla frequente non osservazione da parte degli operatori odontoiatrici delle indicazioni del fabbricante sulla corretta applicazione delle tecniche di adesione smalto-dentinale, influenzando in maniera negativa il restauro adesivo finale, non tanto nell’immediato quanto nella sua longevità nel tempo. Ancora, l’uso dei compositi autoadesivi, essendo molto rapida, potrebbe ridurre il rischio di contaminazione del campo operatorio in seguito al mancato impiego della diga di gomma, dispositivo che, da una recente stima, è utilizzato solo dal 10% degli operatori odontoiatrici.

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